Sono passati 10 anni da quando, nel dicembre 2015, la città di Parigi ha ospitato la ventunesima Conferenza delle Parti (COP21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Un appuntamento storico, da cui è nato l’Accordo di Parigi, il primo patto globale sul clima sottoscritto da quasi tutti i Paesi del mondo
Da allora sono stati compiuti progressi significativi, ma siamo ancora lontani dal raggiungere gli obiettivi fissati 10 anni fa.
Quali risultati ha portato la COP21 e cosa deve ancora essere fatto per raggiungere gli obiettivi previsti? Cosa aspettarsi dalla COP30 in Brasile a 10 anni dagli Accordi di Parigi?
Scopriamolo insieme!
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La COP21 di Parigi: il punto di svolta della diplomazia climatica
Alla COP21 di Parigi parteciparono 195 Stati e numerose organizzazioni internazionali, con l’obiettivo comune di giungere a un accordo globale e vincolante per affrontare l’emergenza climatica. Il 12 dicembre, dopo due settimane di intensi negoziati, è stato adottato l’Accordo di Parigi, un’intesa storica che ha segnato una svolta nella governance climatica mondiale.
L’accordo impegna le parti a:
- mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 °C rispetto ai livelli preindustriali;
- proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 °C;
- raggiungere la neutralità climatica nella seconda metà del secolo.
Un altro elemento centrale è l’obbligo per i Paesi firmatari di presentare, aggiornare e rafforzare periodicamente i propri contributi determinati a livello nazionale, cioè i Piani per la Riduzione delle Emissioni (NDC). L’Accordo di Parigi prevede inoltre meccanismi di supporto finanziario e tecnologico, soprattutto a favore dei Paesi in via di sviluppo, per favorire una transizione giusta verso modelli economici a basse emissioni.
Per entrare in vigore, l’accordo richiedeva la ratifica di almeno 55 Paesi rappresentanti almeno il 55% delle emissioni globali, una soglia superata nell’autunno del 2016, anche grazie alla ratifica dei principali emettitori come Cina, Stati Uniti, Unione Europea, India, Brasile e Giappone. La firma formale è avvenuta il 22 aprile 2016 a New York, alla presenza di 177 Paesi, compresa l’Italia.
Tuttavia, la COP21 non è stata un evento isolato, ma il frutto di un percorso politico, scientifico e anche culturale, segnato da una crescente consapevolezza globale dell’urgenza climatica.
Pochi mesi prima venne infatti pubblicata, nel giugno del 2015, l'enciclica “Laudato si'” di Papa Francesco che diede un contributo significativo a questo clima. Nel testo il Pontefice ha lanciato un forte appello alla “cura della casa comune”, invitando l’umanità intera a riconsiderare i propri modelli economici, sociali e culturali alla luce della crisi ecologica.
Con un linguaggio accessibile, l’enciclica denuncia gli effetti devastanti dell’attività umana sull’ambiente, la responsabilità collettiva della crisi climatica e l’urgenza di una “conversione ecologica” che abbracci giustizia sociale, equità intergenerazionale e sostenibilità. L’intervento del Papa ha avuto un’eco globale, contribuendo a influenzare il dibattito pubblico e a rafforzare il consenso attorno all’importanza di un accordo climatico ambizioso.
La COP21 si è quindi inserita in un contesto di profonda mobilitazione che ha contribuito a fare pressione sui decisori politici.
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L’Accordo di Parigi 10 anni dopo: quali risultati?
In un contesto globale ancora incerto, l’azione di alcune potenze internazionali inizia a dare segnali concreti di cambiamento.
L’Unione Europea, uno dei principali attori per la promozione di uno sviluppo sostenibile, ha scelto di affrontare questa responsabilità con un piano ambizioso, il Green Deal Europeo.
Questa strategia punta a:
- ridurre del 55% le emissioni di gas serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990;
- raggiungere la neutralità climatica entro il 2050;
- piantumare 3 miliardi di nuovi alberi entro il 2030.
L'Unione Europea ha intrapreso da tempo un percorso di diminuzione delle emissioni, ottenendo cali del 31% nel 2020 e del 37% nel 2023. Nonostante questi progressi, il raggiungimento dell'obiettivo di riduzione del 55% stabilito dal Green Deal necessita di una forte accelerazione.
Anche sul fronte della produzione energetica, l’Europa sta compiendo importanti progressi. Nel 2024 quasi la metà dell’elettricità prodotta nel continente proviene da fonti rinnovabili. A guidare questa transizione sono in particolare eolico e idroelettrico, che insieme rappresentano circa due terzi della produzione rinnovabile complessiva.
Sul fronte asiatico, è la Cina a giocare un ruolo chiave. Primo emettitore mondiale di gas serra, il Paese sta investendo massicciamente nella transizione energetica. Nel 2024, la Cina ha prodotto il 48,4% dell’energia fotovoltaica mondiale e il 42,2% dell’energia eolica del pianeta.
Questi numeri sono importanti e confermano la centralità del colosso asiatico nella sfida climatica. Secondo i piani ufficiali, il picco delle emissioni cinesi è previsto entro il 2030, per poi arrivare alla neutralità climatica entro il 2060.

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Il cambiamento climatico accelera: gli obiettivi di Parigi sono ancora lontani
Nonostante gli sforzi compiuti e gli impegni formali assunti nel corso dell’ultimo decennio, i segnali che ci lancia il pianeta restano comunque preoccupanti. Il cambiamento climatico sta accelerando e siamo ancora lontani dal raggiungere gli obiettivi fissati nel 2015 con l’Accordo di Parigi.
Il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato a livello globale, con una temperatura media che ha superato per la prima volta la soglia di +1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, la soglia minima prevista proprio dall’accordo di Parigi.
Nel frattempo, gli eventi climatici estremi si intensificano.
Nel 2024, le inondazioni in Europa hanno causato oltre 18 miliardi di euro di danni e 335 vittime, mentre il sud-est del continente ha registrato la più lunga ondata di calore mai osservata. Sui 97 giorni estivi, ben 43 hanno superato le soglie di stress termico. Gli impatti sulla salute umana, secondo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), potrebbero causare fino a 30.000 morti l’anno in Europa se si supererà stabilmente la soglia di 1,5°C.
Anche sul piano politico la situazione è complicata. All’inizio del 2025, il 95% dei Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi non ha ancora presentato i nuovi Piani di Riduzione delle Emissioni (NDC) per il 2035. Tra gli assenti figurano i grandi emettitori globali come Cina, Unione Europea e India, che insieme rappresentano circa l’83% delle emissioni globali e quasi l’80% del PIL mondiale.
Nel caso dell’Unione Europea, la difficoltà è principalmente politica siccome trovare un’intesa comune tra 27 Paesi con priorità e livelli di sviluppo diversi e complesso. L’attuale Green Deal prevede una riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030, ma manca una visione chiara oltre quella scadenza. Si è parlato di un obiettivo di -90% entro il 2040, ma la proposta è stata accolta con scetticismo da alcuni Stati membri come la Polonia.
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COP 30 a Belém in Brasile: cosa aspettarsi
Il ruolo del Brasile nel contesto geopolitico mondiale
Nel novembre 2025, a 10 anni esatti dall’Accordo di Parigi, si terrà in Brasile la 30ª Conferenza delle Parti sul clima (COP30). Sarà una conferenza dal forte valore simbolico e strategico siccome si svolgerà a Belém, nel cuore dell’Amazzonia, una delle regioni più fragili e cruciali per l’equilibrio climatico del pianeta.
Dopo le ultime edizioni tenutesi in paesi con economie basate sull'estrazione petrolifera, per la prima volta una COP si svolgerà in un territorio indigeno e forestale. In Amazzonia si concentra una parte fondamentale della biodiversità globale, ma è anche uno dei maggiori bacini di assorbimento di CO₂. Negli ultimi decenni questo territorio ha però subito una devastante deforestazione e il suo delicato ecosistema sarà al centro del dibattito, simboleggiando la più ampia sfida tra conservazione e sviluppo, giustizia climatica e interessi economici.
Un ruolo centrale nella decisione di ospitare la COP30 in Brasile lo ha avuto il presidente Lula, che ha voluto con forza riportare il vertice sul clima nel proprio Paese. Una scelta dal forte significato politico, soprattutto se letta in contrasto con il suo predecessore. Nel 2019, l’allora presidente Jair Bolsonaro annullò l’ospitalità già prevista per la COP25, costringendo gli organizzatori a trasferire con molta fretta la conferenza a Madrid.
Con la COP30 a Belém, Lula intende segnare una chiara discontinuità: rilanciare l’impegno climatico del Brasile e posizionarsi come leader di un nuovo fronte globale, più inclusivo e rappresentativo.
Ma la scelta del Brasile come sede non è solo interna. La probabile assenza degli Stati Uniti dal tavolo negoziale, sotto la rinnovata presidenza di Donald Trump, apre infatti nuovi spazi diplomatici.
In questo scenario, la COP30 potrebbe trasformarsi in un palcoscenico strategico per i BRICS e per altri Paesi emergenti decisi a far sentire la propria voce. La leadership climatica non può più essere appannaggio esclusivo delle economie occidentali, ma serve pluralismo, un nuovo equilibrio tra Nord e Sud del mondo.
COP30 come spartiacque per le sfide climatiche
Oltre agli aspetti di rilevanza geopolitica, la COP30 sarà anche una scadenza tecnica di grande importanza. Entro il vertice di Belém, tutti i Paesi dovranno presentare i nuovi Piani Nazionali di Riduzione delle Emissioni (NDC) aggiornati per il 2035, come previsto dal ciclo di revisione quinquennale dell’Accordo di Parigi.
Questo sarà il primo vero banco di prova dopo il Global Stocktake del 2023. Secondo l’Accordo di Parigi infatti, ogni 5 anni è previsto il Global Stocktake (GST), un processo per valutare i progressi collettivi nel raggiungimento degli obiettivi stabiliti nel 2015. Il primo Global Stocktake si è tenuto durante la COP28 di Dubai che ha evidenziato come il mondo non è sulla strada giusta per raggiungere gli obiettivi fissati a Parigi.
Molti osservatori si aspettano che in Brasile si discuta con maggiore chiarezza di temi finora affrontati solo in modo parziale. Ne sono un esempio l’abbandono dei combustibili fossili, il futuro della compensazione volontaria del carbonio, la giustizia climatica per le popolazioni indigene e per i Paesi vulnerabili.
Probabilmente però, uno dei temi cruciali sarà la ridefinizione delle modalità di accesso e la trasparenza dei finanziamenti climatici, dopo gli scarsi risultati ottenuti durante la COP29.
In questo scenario, la voce delle imprese, delle città e della società civile sarà decisiva. La COP30 potrà essere un successo solo se verrà colta come occasione per costruire alleanze trasversali tra settori pubblici e privati e tra Nord e Sud del mondo.